Inciampare sul tubo

Soffro della sindrome da abbandono. Così quando lei parte ho difficoltà ad addormentarmi la sera, e ci riesco solo grazie alla compagnia della tv che sfarfalla qualcosa che non seguo nel buio della stanza. Noi non l’accendiamo praticamente mai. Ma non resistiamo al fascino di Minoli, di Lucarelli e dei documentari di La7. La notte però non ci sono speranze, e soprattutto ora vorrei qualcosa di divertente ed il personaggio più esilarante della televisione la diserta da anni. Sì, lo so che c’è sempre il tg4, ma sento che non sarebbe proprio la stessa cosa. Così, cosa può fare un immaturo semi-trentenne lasciato da solo a casa dalla sua fidanzata partita per quattro giorni? Perdere tempo su You Tube, ovvio. Inerisco due parole, premo invio e mi si manifesta un mondo di risate soffocate senza riuscirci per non svegliare i vicini.

Interno notte, troppo sonno per leggere, una connessione flat, un ragazzo in pigiama abbrutito davanti un notebook e la scena che j’esce lo spinacio dalle mani.


Okkervil River, Circolo degli Artisti, Roma [20.11.2008]

L’incipit è sempre lo stesso: io ed Ale arriviamo al Circolo con due ore d’anticipo, un po’ perché siamo ansiosi, un po’ perché ci muoviamo presto con il solito intento di starcene attaccati alla transenna. Io anche con la voglia di scattare tante foto. Ma, appena cominciato lo spettacolo, mi si avvicina la figura che tutti gli assidui frequentatori dei concerti temono: il tipo idiota della security. Al cui sviluppo dei muscoli ha sicuramente fatto da contraltare la conseguente riduzione del numero dei suoi neuroni, tanto da impedirmi dal fare foto scambiando la mia semi-reflex per un’apparecchiatura professionale ed il mio atteggiamento per quello di un vero fotografo. È un po’ come una nuvola fantozziana. Una volta che ti ha puntato, nella sua vita ci sei solo tu. I’m just a fan, i’m not a pro, i’m here, jumping and singing, can’t you seeee? Il risultato? Un’ulcera nervosa e solo due o tre fotine, di merda, scattate in fretta.

Ho questi ricordi in testa, li giro e li rigiro. Li faccio volare lungo tutta la serata di giovedì che ho trascorso al Circolo. Vorrei scriverne minuziosamente, dirvi di quando tutti abbiamo urlato sul finale di For real, del culo che la chitarrista faiga ha pensato bene di mostrarci ogni volta che si girava ed il suo minivestitino saliva, del tipo accanto a me che non conosceva nemmeno una canzone, dell’attesa ingannata ricordando di quando scrivevamo poesie per ragazze che non le avrebbero mai lette.
Ma c’è un’immagine che si è fissata sulle mie retine e non vuole sapere di andarsene, che cattura e devia i miei pensieri su quella sera, che li blocca ad un preciso momento, che li incolla lì sfocando tutto il resto. È un ricordo che non se ne va e che, ne sono sicuro, mi ossessionerà per parecchio tempo, come le dita impregnate della resina di un albero. C’è stato un momento in cui vi avrei voluti tutti vicino. O tutti lontano. Will Sheff anche era da un’altra parte. Solo voce, chitarre ed una tromba discreta. Per una manciata di minuti tutto si è fermato, tutti eravamo in assoluto silenzio ed il sottoscritto con la bocca spalancata per lo stupore, per l’incredulità. Quella di quando vorresti cantare, ma quello che ti sta di fronte copre tutto, ti riempie e ti isola dal resto. Sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa, ma io sarei rimasto lì, catturato, in un vortice, dove c’ero solo io, quella canzone meravigliosa ed i miei pensieri, quelli belli e quelli così così. Così ho deciso, in uno dei miei impeti di allegria sfrenata, che A stone (grazie per il video, chiunque tu sia) sarà la canzone che dovrà suonare al mio funerale.
Sono una persona molto emotiva, chi mi conosce lo sa. Sono uno di quelli che si commuove anche solo vedendo un film; alcuni direbbero che sono sensibile, altri che sono coglione. Lo so, è un mio limite e ci convivo, poco me ne importa. Hey, Will, non so se te l’ho detto, ma quando hai fatto quella canzone, così, in quel modo così intenso, mi hai riempito di gioia e dolore. Forse non te l’ho detto. Ma sono sicuro che quando i nostri sguardi si sono incrociati, ti sarai chiesto cosa fossero quegli occhi lucidi.




Out

Ovvero, come arrivare tardi.
Intanto, nell’attesa che vada fuori moda, anch’io ho inserito il mio profilo (per essere precisi, c’è ancora solo il mio nome..) su feisbuk.

Oba-mah

Sì sì, lo so che tanto non cambierà niente, che in fondo è solo un’illusione che ci farà ancora più male, che vabbè è solo un vuoto simbolo, che non dobbiamo dimenticare che il potere non è nelle mani dell'uomo uomo, ma nell’economia, che non possiamo più permetterci di sprecare le nostre speranze. Tutto vero, però stanotte, guardando quei bagliori venire fuori da quel coso poggiato sulla cassettiera, un po’ mi sono commosso.

Io sono quello con la maglietta dei pearl jam

Cercavo di far finta di niente, ma se ne saranno accorti un po’ tutti (di sicuro la mia groupie preferita, vedere nei commenti al post precedente): non sto scrivendo. Ma non lo sto facendo per due buoni motivi. Mi sono avventurato nell’arte che mi riesce meglio, ovvero lanciarmi in attività fuori dalla mia portata, lontane dalle mie possibilità. Da bambino fantasticavo di trasformarmi nel Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, quand’ero adolescente sognavo di diventare un cantautore depresso e miliardario e a vent’anni avrei voluto cambiare il mondo. Invece questa volta ho un esame a fine novembre. Quello più importante, di quelli che ti possono cambiare la vita, che rientra a pieno titolo nella categoria missione impossibile. In pratica esco da lavoro solo per tornare a casa e piegarmi sui libri. Il secondo motivo, strettamente dipendente dal primo, è che la sera sono così stanco che tutto vorrei fare tranne che sedermi nuovamente davanti ad un pc, neanche per farmi un giro su youporn (penso sia indicativo). Naturalmente quel tutto vorrei fare sta per non-ho-voglia-di-fare-un-cazzo. Conseguenza con pesanti ripercussioni anche sulla mia vita sociale e passionale; primo fra tutti aver mancato un concerto per il quale sospiravo da mesi, quello dei Built To Spill. Ma non sono tornato qui per lamentarmi. Ogni mattina mi sveglio con lei accanto e per questo sono felice.
Ho aperto gli occhi questa mattina, con in testa le note di una canzone. I suoi arpeggi mi hanno fatto pensare che sarei subito dovuto correre a prendere la chitarra e buttare giù quelle semplici e meravigliose idee. Ho appena scritto una canzone meravigliosa, Elliott Smith sarebbe orgoglioso di me. Mo glielo faccio vedere io a tutti di quello che sono capace, che ispirazione che ho avuto. Indie folk kicks your ass. Ma in fondo non sono più un adolescente, e questo sogno è durato poco. Mi sono rilassato ed ho messo le cuffie del mio lettore emmepitre per svegliarmi meglio, giusto il tempo di scoprire che ‘sta canzone l’aveva già scritta qualcun altro.
Ho sempre avuto un debole per le canzoni che richiamano luoghi ben precisi, nomi di persone, orari, storie. Le ho sempre viste come caratteristiche che più avvicinano la musica ad essere come un libro. Ultimamente mi è venuta una paura fottuta del futuro e in fondo questa è una canzone che parla proprio di una certa “nostalgia del futuro, o di qualcosa che non hai mai vissuto” (parola di Conor Oberst, sì ancora lui). Anche se non sono proprio la stessa cosa, nella mia mente questi due sentimenti sono sempre stati legati da un sottile filo rosso. Il risultato è che alle mie orecchie, al mio cuore, al mio stomaco, in questi giorni questa è la canzone più bella dell’universo. È la prima in streaming,
qui.
Insomma, com’è come non è, fino alla fine del mese sarò impegnato con altri pensieri. Ci vediamo il venti al concerto degli Okkervil River. Io sono quello con la maglietta dei pearl jam.