La guerra di civiltà contro i selezionatori del personale


[Young boys swordfighting in Harlem. Photographed by Aaron Siskind (1903-1991), date unknown]


Lo dico subito e lo scrivo chiaro: i loschi figuri menzionati nel titolo sono la categoria più infima e parassitologica del mondo del lavoro. Quello che ti sequestra per otto ore sottoponendoti a prove di gruppo, singole e colloqui individuali a ritmi serrati per ricavarne un profilo delle tue capacità e personalità senza uno straccio di metodo serio e (almeno tendente allo) scientifico. Ingannevole è il selezionatore più di ogni altra cosa.

La vigilia dell’assessment day è trascorsa molto poco tranquilla, così come mi sarei ragionevolmente aspettato, e smossa dalle solite mie paure irrazionali. Tipo che mi sarei prima o poi disteso a pelle d’orso, tradendo tutta la mia goffaggine, inciampando proprio sotto gli occhi delle esaminatrici. E se pensate che certe scene fantozziane accadano solo nei film, allora vuol dire che non mi conoscete ancora bene. Tra l’altro, nella mia testa, le spietate e crudeli signorine con lo scettro del potere erano anche pronte a sfogare su di me tutta la loro acida frustrazione, piegandosi a bere il mio sangue leccandolo dal rigagnolo che si sarebbe formato a terra dopo averci sbattuto la testa. Ovviamente una cosa del genere non è poi accaduta (soprattutto la roba macabra del sangue), ma la mia buona razione di figure di merda l’ho comunque portata a casa anche questa volta. Nell’ordine:
1. arrivo tutto yeah yeah, nonostante tutto con il cuore pieno di speranze, e mi siedo subito al posto della Commissione, anche se la disposizione dei banchi non avrebbe dovuto lasciar dubbi. Mi sento osservato e infatti tutti gli altri quattordici candidati mi guardano con un’espressione che è un misto tra il preoccupato e il perplesso. Mentre nessuno favella, io non riesco a fare di meglio del chiedermi “ma perché mi fissano?”, senza ovviamente darmi una risposta. Ci pensa la prima selezionatrice, appena arrivata nella stanza: - Che c’è? (anche lei mi fissa, ma è una moda?) - Quello sarebbe il nostro posto...
2. inverto magicamente la destra con la sinistra, anche se vi posso assicurare di aver imparato la distinzione quando ero alto circa un terzo rispetto ad ora: - In fondo a sinistra... mi avevano detto così... - Infatti, ma questa è la destra, replica impassibile ed incredulo l’impiegato, sicuramente un altro psicologo succhiasangue, seduto in uno di quei “posti da Commissione”, a capo di una stanza gremita di altre vittime sacrificali come me. Non mi era bastata l’evidenza della scritta “toilette” sull’altra porta, quella di sinistra? Evidentemente no. Modestamònt.

Avevo deciso che da questa giornata me ne sarei uscito con il sorriso stampato sulla faccia ad ogni costo, anche se mi avessero salutato con un ci dispiace, ma il suo profilo non rientra tra quelli richiesti dalla Società..., perché i desideri non realizzati che accumulo non debbano formare con il tempo un masso troppo pesante da trascinare. Alla fine me ne sono uscito a testa alta, ma ho imparato che ogni vittoria ha un retrogusto amaro e che a guardare troppo in alto ci si bruciano sempre gli occhi con il sole.
Un assessment day rientra nella nutrita schiera di inglesismi che ci hanno sommerso (query, survey, customer satisfacion, pending, quality report, focus group, brainstorming, checklist, benchmark, ASAP, che mi ritrovo quotidianamente ad usare, oops scusate, I dailiy use), che vorrebbe essere tanto figo e profèscional, ma in realtà è solo un eufemismo che nasconde la cruda realtà: quando qualcuno loda la tua strategia di aggressione, sai che ti sei corrotto dentro, anche se molto probabilmente otterrai quello cui anelavi. Perché una giornata trascorsa così è la summa dell’homo homini lupus. Dovrebbero valutare le tua capacità di problem-solving (ancora?) e la tua propensione al lavoro di gruppo, invece cercano di tirare fuori il tuo lato più aggressivo che evidenzi le tue doti di leader. E, dato che nella parte di un cane rabbioso non mi ci sono mai trovato a mio agio e mai mi ci sentirò, ricevere dei complimenti alla fine della giornata da parte di chi ha un ruolo di giudice del tuo futuro, manco fosse dio-sceso-in-terra, non è poi così lusinghiero. È più un qualcosa di assimilabile ad una spiacevole sensazione che non riesci però a ben definire. Ma la colpa è soprattutto dei miei compagni di avventura: capisco che per la maggior parte di loro è una guerra, una corsa al massacro; vedo i sorrisi finti dei più, in pochi riescono a rilassarsi, come mi stupisco di riuscire a fare io.
Alla fine dei compiti di gruppo risulto essere stato quello, a detta delle donne-vampiro, più loquace, determinato e attivamente propositivo.

Un vento bastardo e infimo mi accoglie all’uscita del tour de force. Esco dall’assessment e vedo due bambini che giocano a fare la guerra. Le loro pistole finte dovrebbero servire a ricordarci quanto sia atroce una guerra vera combattuta dagli adulti, che sia fatta con le bombe o solo con le parole. Per questo per me, oggi, sapere di non aver fatto leva sulle difficoltà degli altri per emergere, almeno coscientemente, è un antidoto al malumore.

Poi torno a casa, sono le sette, penso alla poesia di Alberto Vigevani (Vivo, lo so, / di ciò che non ho / a volte persino / di ciò che non è.), vado di maglietta di Superman che uso come pigiama -sono invincibile?- e accendo la tv: i bastardi la guerra la stanno facendo per davvero, bombardando per i loro interessi. Mi addormento prima del solito, più leggero, anche se non dovrei e anche se non ci sarebbe nessun motivo per farlo.