Comunicazione di servizio, che, come tutte le comunicazioni di servizio, verrà debitamente ignorata, ma tant’è.

Mi ero dimenticato di dirvi che questo blog ha traslocato (http://snowflakefallsinjuly.tumblr.com/).
Fate attenzione: ci sono ancora tutti gli scatoloni in giro.
Però di questo posto conservo ancora le chiavi.


From the Muddy Banks of the blonde Tiber


Sono passato davanti all’ex Teatro Castello. Quando nel 1991 i Nirvana si esibirono in quel buco io già suonavo il basso, scalzo e saltellante per la stanza proprio come Novoselic. Camminavo scazzato con le Converse rotte, le cuffie nelle orecchie, avevo appena litigato con i miei genitori e un amico mi aspettava già lì: questa cosa invece, nonostante le apparenze, è avvenuta ieri. «Vediamoci lì, dai, dove non siamo stati mai così vicini a Cobain. Com’è che si chiamava quel posto?». Il Castello era un teatro a due passi dal Vati*ano e a tre dal fiume che un tempo sommergeva spesso Roma portandosi via qualche manciata di preti che già la occupavano, incastrato quasi sotto il Passetto di Borgo sopra il quale il Papa correva correva con le sue scarpette rosse in fuga dai lanzichenecchi. Venti anni dopo lo riscopro nelle vesti della sede di una prestigiosa università cattolica. Un posto dove se ti fai le seghe e ascolti musica rock vai all’Inferno e dove la libertà è quasi sempre un peccato, figuriamoci ad urlarla in un disco che ha come titolo “In Utero”, che poi non è nemmeno quello della Madonna.
Così, all’alba del 2012, per vendicare Kurt Cobain e i lanzichenecchi -no, i lanzichenecchi no, dai, facciamo Garibaldi- dovrei creare una breccia tra quelle vetrate con un sampietrino, per poi fare irruzione brandendo un crocifisso capovolto e recitando il Padre Nostro al contrario.
Ma io sono molto più tollerante di loro, i Nirvana non li ascolto dal 1994 e poi in questi giorni sono troppo scazzato per fare qualsiasi cosa. Forse sarà colpa dell’adolescenza, passerà.

Pagherete tutto e pagherete caro


C’è chi sognava e si batteva affinché gli interessi delle grandi multinazionali non fossero più responsabili di osceni giochi di potere sulle spalle dei popoli. Ma è ancora così.
Poi ci sono gruppi che celebrano gli eroi e mi colpiscono con una canzone, anche se anni dopo è come se avessero scritto solo quella. Del resto vivo benissimo senza. È sempre stato così. Come con certi scrittori: leggo un libro, mi ci perdo dentro, poi sfoglio le pagine del successivo e puff, la magia svanisce. Però alcuni scrittori -che riversino le loro parole in un libro o le declamino su una base musicale non fa alcuna differenza- hanno almeno il merito di accendere milioni di sinapsi nel mio cervello (ne ho milioni? mah, qualcuna/o avrebbe da ridire, spero non lo faccia nei commenti), quelle che scatenano l’amore, la nostalgia, la malinconia, la felicità, la rabbia. La rabbia. Quando ascolto questa canzone l’ira mi avvolge, il respiro si fa veloce e affannoso anche da fermo, ché fermo non vorrei essere. Agire. Andiamo, cambiamo questo mondo di merda. Proprio come con i sentimenti da supereroe che si alimentarono in me quando da piccolo vidi per la prima volta Batman. Ciao mamma, vado a lottare per la dignità e la giustizia. L’indignazione mi guiderà verso un mondo migliore. Almeno fino a quando per strada liquiderò ancora un volta con un “no, mi dispiace, ciao” il fratello nigeriano che vorrebbe solo due spicci, lasciandomi scavare dentro una fastidiosa sensazione che è come se fosse, in agguato, come sempre, la paura di morire.

Lo Stato sociale