I want to believe

Gli ads personalizzati li conoscete un po’ tutti. Piccoli omini verdi ti spiano seguendoti sui siti internet, catturano i tuoi gusti e interessi annotandoli su un quadernino e, grazie ad un semplice algoritmo, ti propinano banner ad hoc su qualsiasi pagina a caso vi troviate, basta che sia predisposta per questo simpatico servizio non richiesto. Più o meno funziona così. Forse gli omini sono blu non verdi, ma il concetto è quello. Vai su un sito dove i ragazzi e le ragazze fanno i biricchini? Ecco, se non cancelli i cookie, oltre alla cronologia, molto probabilmente tua madre, mentre siede alla tua scrivania della tua nuova casa per curiosare e sognare nei siti di porcellane finissime e costosissime (da qui il sognare) che a lei piacciono tanto, finisce su qualche pagina con un banner pubblicitario che mostra una signorina bionda molto carina e con il viso coperto di qualcosa che è, boh, forse sapone per le mani, sì mamma, sicuramente sapone liquido per le mani, e ti sorride invitandoti a non perdere l’occasione di scopare tante ragazze vogliose nella tua zona, guarda caso proprio la zona della città dove abiti precisa precisa, basta cliccare su quel pulsante. Poi lei, tua madre, non collegherà mai l’evento alla tua attività notturna davanti a quel monitor perché ignora l’esistenza di tali macchinazioni diaboliche, ma voi lo sapete bene che la colpa gravissima di quella manifestazione virtuale è vostra. Lo so perché a me è capitato.

Se navigando in rete non trovate ads di questo tipo o come quello in basso, che non è propriamente una pubblicità ma funziona con lo stesso meccanismo, vuol dire che non siete mai stati su dei siti p*rno. Mi dispiace per voi, ma il punto è un altro. Se avete risposto Seni o Naso vi siete traditi e ora abbiamo la prova che gli alieni esistono veramente e hanno colonizzato la Terra.

Crazy (cit.)


Eddie Vedder on boat, taken from the “Pearl Jam Twenty” movie

Crazy è il commento che esce dalla bocca di Eddie quando riceve dalle mani di Cameron Crowe il demo tape originale del leggendario Momma-Son: la sua faccia stupita ci racconta che lui, quella cassetta così carica di spirito e sostanza e valore, non la vedeva da molti anni. Ci dice anche che alcune cose, che volgarmente e disgraziatamente chiamiamo oggetti, hanno un significato così splendente che illumina chi lo ha creato così come brucia nell’immaginario di chi lo ha sempre sognato. Hey Eddie, quella roba che hai in mano e che accarezzi è come se i fan sparsi per il globo se la fossero copiata e passata tra loro in tutti questi anni. Perché lì, in quella sua espressione commossa e piena di entusiasmo, c’era anche una parte importante del mio mondo.

Quella stessa espressione l’ho avuta disegnata sul mio volto ad ogni fotogramma, per tutto il tempo che sono stato seduto sulla poltrona di un cinema.

Ok, il film ha molto peccato perché è pieno di omissioni in pensieri, opere, parole e tutta quella roba lì, ma... ehm, forse ho fatto un po’ di confusione. Per dirla in un linguaggio comprensibile e meno mistico-delirante: questo documentario non è una mera e fredda cronistoria della loro carriera, non doveva esserlo; se desideravate una cosa del genere, per voi c’è comunque questa geniale analisi. E poi certe cose non si possono commentare con la ragione. O almeno io non ci riesco. A dirla tutta non ne ho neanche voglia.

Quindi via di sproloquio.

Ho riso, ho pianto, ho ricordato con rabbia, quella adolescenziale che è diventata poi matura ma che in fondo sempre rabbia è, ho ricordato con amore, quello che mi ha fatto volare alto sin dal primo giorno e che ancora non mi ha fatto scendere e che raramente mi ha fatto vedere -ma sempre da lontano- terra, ho guardato al passato con nostalgia e ho visto il presente, quello che sono ora e quello che sono contento di essere, perché su quello schermo ho visto loro ma di riflesso anche me stesso -ecco, ora per lei che mi era seduta accanto non ho proprio più segreti-, e alla fine ho guardato al futuro con un sorriso di speranza -it’s my evolution, baby-.

Durante la visione del film ho realizzato che non avrei potuto desiderare nulla in più di quello che nel corso di questi venti anni hanno saputo darmi. Quello che mi hanno regalato come uomini che sanno anche sbagliare, ma che sono così speciali che se fai la somma e le sottrazioni alla fine il risultato non è mai negativo. Quello che hanno rappresentato, anche nei momenti peggiori, quelli che ieri sera mi hanno fatto chiudere gli occhi per far scendere le lacrime. Essere felice di quello che ho ricevuto: è questo il mio ringraziamento.

Uff, ora posso respirare. Mi schiarisco la voce. Giro la pagina, ma non chiudo il libro.

Con rabbia e con amore.
Per sempre vostro,

pg

The Dreamover


Dream the dreams of other men,... You’ll be no ones rival,...
Dream the dreams of others then,... You will be no ones rival,...
You will be no ones rival,...
(EV)




Pensavo a come il 2011 sia stato l’anno degli anniversari, personali e universali. Cose belle, cose brutte. Good times, bad times.Tante piccole pietre d’angolo per quello che sarebbe venuto dopo. Solo che pochi di questi sono così carichi di simboli come il 9/11:
il senso di precarietà, anche a 7.000 km. di distanza;
i familiari delle vittime che si sono opposti alla guerra, quelli che non volevano spargere altro odio, considerati dei comunisti, e quelli che pensavano fosse molto più patriottico essere lungimiranti, considerati dei fascisti;
l’orgoglio e la voglia di ricominciare;
gli eroi e la retorica;
l’inganno osceno del Dio è con noi, non importa che si chiami Allah, God o YHWH;
le ultime telefonate, i messaggi nelle segreterie telefoniche;
le guerre vigliacche spacciate per Giustizia e mai chiamate con il loro vero nome;
il sospetto, la diffidenza, gli sguardi impauriti e quelli vuoti in metropolitana;
la bandiera a stelle e strisce che hai ritirato fuori dal cassetto, anche se l’american way of life ti è sempre stata un po’ sul cazzo ma quella bandiera ce l’avevi perché quando eri piccolo per te rappresentava un faro di libertà;
i Jumpers, no, quello non è mio padre, lui non l’avrebbe mai fatto, così disprezzati negli States perché non avrebbero combattuto fino alla fine.
Eccola la foto del mio 9/11 vissuto davanti alla televisione, l’immagine più orribile e che proprio per questo dovrebbe esserne il simbolo. I falling men erano l’unico segnale che ti facesse capire che c’era ancora vita da quelle parti. Ancora vita, ancora per poco. All’inizio erano una serie di oggetti inanimati che prendevano vita grazie alla gravità, perché non potevi credere, accettare, che fossero esseri umani: è una scrivania, è una sedia, è una cassettiera, è un cappotto. No. Maledetti zoom.

E poi, certo, la Torre Sud che crolla: vrroooom. La Torre Nord che crolla: vrroooom.

E poi c’è l’assenza. Immaginavo l’assenza. Non le grida, non i desideri di vendetta, nemmeno le ricamate qualità che si cuciono addosso a chi ha lasciato solo i ricordi. Immaginavo l’assenza come dipinta sulle lacrime discrete nella propria intimità, nei gesti quotidiani. Quell’assenza l’ho ritrovata in una canzone, che non parla di quel giorno, ma di quelli seguenti. E di quelli dopo ancora. Una situazione che un uomo del New Jersey -chi meglio di lui?- ha saputo evocare con parole semplici, scarne, senza iperboli ardite, senza retorica. Inizia così. Shirts in the closet, shoes in the hall. Mama's in the kitchen, baby and all. Everything is everything. Everything is everything. But you're missing. Nei gesti quotidiani.

E poi c’è la libertà, che è una parola con la quale ci riempiamo spesso a sproposito la bocca. La libertà che si misura sul peso dell’ironia che possiamo dare alle nostre vite. La vera libertà è quella di poter ridere sulla religione, su Dio, sul governo, sul potere, sui nostri pregi e sui nostri difetti, personali e collettivi come popolo, sulla vita e sulla morte.
Non serviva a niente chiamare l’amico, quello cinico che ha sempre una battuta per tutto e che ti fa ridere sempre. - Ma... Cazzo. Cristo. Chissà quante persone. Hai visto come sono venute giù? - Certo che l’ho visto. Ma non hai nient’altro da dirmi? - Mi viene da piangere. - Anche a me, ciao. Clic. Questa volta non ce l’abbiamo quella libertà. È una cosa troppo grossa. La coscienza e la sensibilità ce lo impedisce. E questa volta non è la natura o il fato che ce l’ha tolta. Sono stati degli uomini. Per questo li disprezzo, ancora di più.

E poi ci sono tutte quelle domande, che viaggiano in mille direzioni, fanno il giro della Terra e ti ritornano indietro più pesanti di prima. Troppo pesanti per essere sopportate. Invece delle inutili domande, quei “Tu dov’eri in quel momento?” e “Cosa stavi facendo?”, che ci invadono in queste ore, che ci hanno tormentato allora, avrebbe più senso chiederci e chiedere quello che l’Undicisettembre rappresenta per noi. Per me sono i sogni infranti di migliaia di persone, di quelle andate così come di quelle rimaste. E quelli irrealizzabili, come quello di Oskar: il sogno che ci ha regalato Foer nelle pagine più stravolgenti, commoventi e cariche di significato scritte dopo quei giorni così privi di senso. Ecco, non ho saputo fare di meglio che filmarle e metterle qui.

In quei giorni ho capito che si vive una volta sola, ma si muore tante volte. Quando si combatte una guerra in tuo nome. Ogni volta che le tv ritrasmettono quei filmati delle Torri. Questo l’ho visto milioni di volte. Oggi eccone uno nuovo.