From the Muddy Banks of the blonde Tiber


Sono passato davanti all’ex Teatro Castello. Quando nel 1991 i Nirvana si esibirono in quel buco io già suonavo il basso, scalzo e saltellante per la stanza proprio come Novoselic. Camminavo scazzato con le Converse rotte, le cuffie nelle orecchie, avevo appena litigato con i miei genitori e un amico mi aspettava già lì: questa cosa invece, nonostante le apparenze, è avvenuta ieri. «Vediamoci lì, dai, dove non siamo stati mai così vicini a Cobain. Com’è che si chiamava quel posto?». Il Castello era un teatro a due passi dal Vati*ano e a tre dal fiume che un tempo sommergeva spesso Roma portandosi via qualche manciata di preti che già la occupavano, incastrato quasi sotto il Passetto di Borgo sopra il quale il Papa correva correva con le sue scarpette rosse in fuga dai lanzichenecchi. Venti anni dopo lo riscopro nelle vesti della sede di una prestigiosa università cattolica. Un posto dove se ti fai le seghe e ascolti musica rock vai all’Inferno e dove la libertà è quasi sempre un peccato, figuriamoci ad urlarla in un disco che ha come titolo “In Utero”, che poi non è nemmeno quello della Madonna.
Così, all’alba del 2012, per vendicare Kurt Cobain e i lanzichenecchi -no, i lanzichenecchi no, dai, facciamo Garibaldi- dovrei creare una breccia tra quelle vetrate con un sampietrino, per poi fare irruzione brandendo un crocifisso capovolto e recitando il Padre Nostro al contrario.
Ma io sono molto più tollerante di loro, i Nirvana non li ascolto dal 1994 e poi in questi giorni sono troppo scazzato per fare qualsiasi cosa. Forse sarà colpa dell’adolescenza, passerà.