Più o meno il duemiladieci

Inizio dell’anno: tempo di classifiche, di tirare le somme, fare i conti con quello che è stato, prendere il buono e guardare avanti e bla bla bla.
Il meglio del 2010, che a volte corrisponde al meglio, altre al peggio. Un best of molto egocentrico. E come potrebbe non esserlo, scritto su un blog?


Miglior photo-blog: Mila's Daydreams. Ora non più ricco di foto, per tutelare quelle opere d’arte. Ma presto sarà un libro.

Spilletta più indie-nerd: il titolo se lo aggiudica con (poco) onore il sottoscritto, grazie a Jonah Matranga e al droide più simpatico della galassia (R2-D2, noto anche come C1-P8).

Miglior giocatore dello sport nazionale che le teorie sociologiche ed i radical-chic, che non hanno mai letto un libro di sociologia, definirebbero di “distrazione di massa”: Jérémy Menez. Si dovrebbe introdurre nel regolamento l’espulsione diretta ad ogni fallo subito dal giocatore francese, anche se in difesa, perché rappresenterebbe comunque una chiara e lampante occasione da goal. Catch me if you can.

Peggior scusa di un politicante: il vostro ex-min***ro, con la sua nuova casa vista Colosseo comprata a “sua insaputa” (da leggersi facendo contemporaneamente il gesto delle virgolette con le dita). Come chi? Non fatemi fare nomi, dai, quello con il cognome come il nome di una pizza buonissima, senza il bo all’inizio e scritto alla romanesca.

Busta paga più immorale: and the winner is, rullo di tamburi, fuochi d’artificio, nani e ballerine... ancora il sottoscritto. Sì vabbè, c’è sempre chi-sta-peggio-di-chi e per questo “non dovrei lamentarmi troppo”. Ma sono un brontolone e poi le rivendicazioni sindacali se non le faccio qui dovrei le dovrei fare, dato che quelli-come-me non sono rappresentati? Ah, già, nell’ufficio dell’ad; però non sono così coraggioso.

Attacco di panico più ridicolo: già, tra le altre cose simpatiche che questo duemiladieci mi ha regalato, c’è anche un costante stato d’ansia che, anche se raramente e quando meno me lo aspetto, sfocia in violenti attacchi di panico, inediti per il sottoscritto perfino nei momenti più bui della mia, ahimé, non più breve esistenza. Un vero e conscio motivo non c’è, dato che navigo da anni in un periodo per tanti aspetti meraviglioso. Non resta, quindi, che sedersi ed aspettare che passi la tempesta.
Beh, per tornare alla candidatura risultata vincente: il più ridicolo attacco di panico è stravolgere millenni di aritmetica, con buona pace di Pitagora e degli altri nerd come lui (ma senza spilletta di Jonah feat. un robot sci-fi), calcolando metodicamente come a riposo 15 battiti cardiaci in 10 secondi equivalgano a quasi 250 in un minuto, segnale di un imminente e folgorante infarto del miocardio, o mio cardio, come in tenera età ero convinto si chiamasse.
Quando ho vissuto anni merdosi non mi importava nulla della salute o almeno non me ne curavo. Ora che sono felice sono diventato ipocondriaco, perché mi interessa di tutto. È stato una specie di baratto con la felicità. Forse certe anime l’inquietudine ce l’hanno nel dna e non ci si può nascondere o scappare. Il tempo mi dirà che avevo torto, o almeno lo spero.

Libro più evocativo letto nel 2010, e forse anche da quando ho imparato a leggere, ma che non è stato pubblicato nel 2010 (è del 2005), ma tanto chissene, l’importante è averlo scoperto: Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, letto dopo il suo primo capolavoro, che credevo, ingenuamente, insuperabile.
Lo ammetto, mi sono lasciato sommergere dall’onda emotiva della storia di Oskar, da quello che lo devasta dentro e che lo porta a cercare fuori, dappertutto, una risposta al suo dolore. Un po’ mi sono anche scottato con lui. Come restare indifferenti al suo ostinarsi a cercare un legame sottile con quello che non c’è più per mantenerlo vivo, pulsante, reale? Così come al suo evadere da ciò che è tangibile, inventando mille mondi per non pensare alla realtà? Vorresti prenderlo per le braccia e scuoterlo, scuoterlo, scuoterlo e urlargli: quello che conta è quello che resta e chi resta! Perché non a tutto c’è una soluzione, non tutti i desideri sono fatti per essere esauditi. Perché l’abbandono a volte rimarrà per sempre tale. E senza una risposta.
Le ultime due pagine le ho lette e rilette dieci, mille volte e potrei rifarlo anche questa sera: sono l’emblema dell’assenza e di quello che ci manca. A me manca questo libro. Mi mancherà per sempre Oskar. Ogni tanto, guardando il suo bordo rosso nella libreria, penso che non avrei dovuto finirlo, così come mi succede con tutti gli altri libri che ho amato. Ma forse questo l’ho amato un po’ di più.


S.O.S.

Vi è mai capitato di aiutare un collega in difficoltà, che se farlo avrebbe implicato stress aggiuntivo, ore di straordinario –ovviamente– non pagato e un senso di frustrazione dilaniante per aver passato il 25 dicembre recuperando quello che non eri riuscito a completare?
Beh, io l’ho fatto. Non perché sia un supereroe-senza-poteri (a meno che la volontà non sia da supereroi, oppure un superpotere), né perché abbia voglia di mostrare barra ostentare ai piani alti il mio impegno e valore. Per inciso, quest’ultima cosa l’ho già fatta e non è servita a molto, quindi stop, me ne sono pentito, capitolo chiuso e cambio di strategia: lavorare meno.

L’ho fatto perché “stiamo tutti sulla stessa barca”. Con queste parole ho spiegato al collega-pieno-di-lavoro la mia abnegazione, con il risultato di sentirmi rispondere con un lapidario “Ti sbagli”. Silenzio.
Poi ci ha pensato un po’ su ed ha aggiunto: “la conosci Titanic di De Gregori? Hai presente la prima strofa? Ecco quello che siamo in questa Società. Se è vero che stiamo sulla stessa barca, a che condizioni navighiamo?”. Non sapevo se si stesse riferendo alla società con la esse Maiuscola o minuscola, anche se ho il sospetto a quale delle due si rivolgesse e la personale convinzione che siano, oggettivamente e nella realtà, entrambe.
“Certo, la conosco…”, ho replicato, non sapendo cosa altro aggiungere e strozzando in gola, per una volta, il fiume di parole che avrei voluto far uscire sull’argomento, così tante da farle arrivare alle caviglie e poi alla gola e poi affogarli tutti.

In verità non lo ricordavo proprio quali fossero quei primi versi, anche se la canzone la conoscevo, ma ho mentito. In quel momento non sono stato sincero un po’ perché avrei dovuto saperlo data la mia sconfinata passione per la musica, un po’ perché avevo il sospetto che fosse una di quelle frasi ad effetto che hanno il potere di farmi diventare necessariamente li occhi luccicanti. Ed io odio commuovermi davanti agli altri –altri che non siano le persone a me più care-, perché è una cosa che mi fa sentire fastidiosamente e tremendamente vulnerabile. “Certo, la conosco…”, così da non indurlo a ripeterle davanti a me.

Appena tornato alla mia scrivania ho messo le cuffie, ho aperto il browser direttamente su YouTube e ho capito finalmente cosa volesse dirmi.

La prima classe costa mille lire,
la seconda cento,
la terza dolore e spavento…

I miei occhi hanno luccicato. Happy new tear.

A volte ritornano

Immagino vi stiate tutti (?) chiedendo come abbia trascorso il New Year’s Eve (yeah, yeah, I wanna sghep nau). Sento la tensione dell’attesa nell’aria, lo esternate nei vostri numerosi (?) commenti. Per questo vi accontento.
Bene, fondamentalmente ho visto millemila volte questo filmato ed urlato a più riprese fino alle tre della notte imitando il suo protagonista negli ultimi secondi del video. Penso sia giusto sappiate che sono astemio. E che non fumo. E che non assumo qualsiasi altra sostanza alla quale starete pensando.
Guardatelo tutto perché è esilarante, ma soprattutto concentrate la vostra attenzione dal minuto 06:40.

Perché festeggiamo un giorno come tanti, ma simbolico, ma come tanti perché a tanti uguale? Io ne ho travato un senso nel trascorrerlo con gli amici: a ridere, fare tardi, stupirsi come i bambini guardando i fuochi. Prima o poi a certe ovvietà ci arrivo pure io.
Quante –troppe, inutili– domande ultimamente.