The Dreamover


Dream the dreams of other men,... You’ll be no ones rival,...
Dream the dreams of others then,... You will be no ones rival,...
You will be no ones rival,...
(EV)




Pensavo a come il 2011 sia stato l’anno degli anniversari, personali e universali. Cose belle, cose brutte. Good times, bad times.Tante piccole pietre d’angolo per quello che sarebbe venuto dopo. Solo che pochi di questi sono così carichi di simboli come il 9/11:
il senso di precarietà, anche a 7.000 km. di distanza;
i familiari delle vittime che si sono opposti alla guerra, quelli che non volevano spargere altro odio, considerati dei comunisti, e quelli che pensavano fosse molto più patriottico essere lungimiranti, considerati dei fascisti;
l’orgoglio e la voglia di ricominciare;
gli eroi e la retorica;
l’inganno osceno del Dio è con noi, non importa che si chiami Allah, God o YHWH;
le ultime telefonate, i messaggi nelle segreterie telefoniche;
le guerre vigliacche spacciate per Giustizia e mai chiamate con il loro vero nome;
il sospetto, la diffidenza, gli sguardi impauriti e quelli vuoti in metropolitana;
la bandiera a stelle e strisce che hai ritirato fuori dal cassetto, anche se l’american way of life ti è sempre stata un po’ sul cazzo ma quella bandiera ce l’avevi perché quando eri piccolo per te rappresentava un faro di libertà;
i Jumpers, no, quello non è mio padre, lui non l’avrebbe mai fatto, così disprezzati negli States perché non avrebbero combattuto fino alla fine.
Eccola la foto del mio 9/11 vissuto davanti alla televisione, l’immagine più orribile e che proprio per questo dovrebbe esserne il simbolo. I falling men erano l’unico segnale che ti facesse capire che c’era ancora vita da quelle parti. Ancora vita, ancora per poco. All’inizio erano una serie di oggetti inanimati che prendevano vita grazie alla gravità, perché non potevi credere, accettare, che fossero esseri umani: è una scrivania, è una sedia, è una cassettiera, è un cappotto. No. Maledetti zoom.

E poi, certo, la Torre Sud che crolla: vrroooom. La Torre Nord che crolla: vrroooom.

E poi c’è l’assenza. Immaginavo l’assenza. Non le grida, non i desideri di vendetta, nemmeno le ricamate qualità che si cuciono addosso a chi ha lasciato solo i ricordi. Immaginavo l’assenza come dipinta sulle lacrime discrete nella propria intimità, nei gesti quotidiani. Quell’assenza l’ho ritrovata in una canzone, che non parla di quel giorno, ma di quelli seguenti. E di quelli dopo ancora. Una situazione che un uomo del New Jersey -chi meglio di lui?- ha saputo evocare con parole semplici, scarne, senza iperboli ardite, senza retorica. Inizia così. Shirts in the closet, shoes in the hall. Mama's in the kitchen, baby and all. Everything is everything. Everything is everything. But you're missing. Nei gesti quotidiani.

E poi c’è la libertà, che è una parola con la quale ci riempiamo spesso a sproposito la bocca. La libertà che si misura sul peso dell’ironia che possiamo dare alle nostre vite. La vera libertà è quella di poter ridere sulla religione, su Dio, sul governo, sul potere, sui nostri pregi e sui nostri difetti, personali e collettivi come popolo, sulla vita e sulla morte.
Non serviva a niente chiamare l’amico, quello cinico che ha sempre una battuta per tutto e che ti fa ridere sempre. - Ma... Cazzo. Cristo. Chissà quante persone. Hai visto come sono venute giù? - Certo che l’ho visto. Ma non hai nient’altro da dirmi? - Mi viene da piangere. - Anche a me, ciao. Clic. Questa volta non ce l’abbiamo quella libertà. È una cosa troppo grossa. La coscienza e la sensibilità ce lo impedisce. E questa volta non è la natura o il fato che ce l’ha tolta. Sono stati degli uomini. Per questo li disprezzo, ancora di più.

E poi ci sono tutte quelle domande, che viaggiano in mille direzioni, fanno il giro della Terra e ti ritornano indietro più pesanti di prima. Troppo pesanti per essere sopportate. Invece delle inutili domande, quei “Tu dov’eri in quel momento?” e “Cosa stavi facendo?”, che ci invadono in queste ore, che ci hanno tormentato allora, avrebbe più senso chiederci e chiedere quello che l’Undicisettembre rappresenta per noi. Per me sono i sogni infranti di migliaia di persone, di quelle andate così come di quelle rimaste. E quelli irrealizzabili, come quello di Oskar: il sogno che ci ha regalato Foer nelle pagine più stravolgenti, commoventi e cariche di significato scritte dopo quei giorni così privi di senso. Ecco, non ho saputo fare di meglio che filmarle e metterle qui.

In quei giorni ho capito che si vive una volta sola, ma si muore tante volte. Quando si combatte una guerra in tuo nome. Ogni volta che le tv ritrasmettono quei filmati delle Torri. Questo l’ho visto milioni di volte. Oggi eccone uno nuovo.

1 commento:

dufresne ha detto...

Nel video sono riprodotte alcune pagine di "Molto forte, incredibilmente vicino", romanzo di Jonathan Safran Foer (Guanda, 2005).

Le ultime pagine creano l'animazione di un uomo che cade, ma verso l'alto: è un riavvolgere la vita.