Кедр: поехали!


Questo è indubbiamente l’anno delle celebrazioni: il ventennale dei Pearl Jam, il lustro che ci ha visto legati insieme (sì, sono ormai cinque anni che lei mi sopporta e mi supporta), i 150 anni di cosa lo sapete bene visto che ce lo hanno ripetuto fino alla nausea (altrimenti state vivendo come degli eremiti sul cucuzzolo della montagna e quindi non avete neanche la connessione internet che vi consenta di leggere il blog, perciò è inutile che lo ripeta). E infine oggi cade una ricorrenza molto particolare, che per molti ha un valore puramente storico, ma che per il sottoscritto è un simbolo potente quanto la deflagrazione di quella bomba atomica che, grazie alla Guerra Fredda, non è mai scoppiata.

La figura di Jurij Gagarin è stata una costante, discreta ma sempre presente, nel corso della mia vita. Da quando ero piccolo e i racconti di mio nonno sul romantico e coraggioso eroe si alternavano a quelli di Cappuccetto Rosso, fino a ritrovarlo nelle pagine di Jonathan Coe.

Il 12 aprile 1961, alle ore 9:07 di Mosca, il maggiore Gagarin iniziava il suo epico viaggio intorno alla Terra. Nei giorni successivi, ignorando che il nostro eroe cosmonauta fosse rientrato a casa solo poche ore dopo il lancio, mio nonno se ne stava alla finestra a cercare di catturare con lo sguardo l’uomo delle stelle, che sarebbe passato sopra le loro teste, portando, in quella navicella, un sogno da lanciare dal cielo a tutti quelli che lo stavano aspettando.

Poi, da quel meraviglioso giorno di novembre del 1989, durante il quale si sono aperte le prime crepe nel Muro, mio nonno si è trasformato suo malgrado in uno di quegli orfani che hanno pianto la fine di un sogno che si è rivelato drammaticamente ed improvvisamente illusione. Mio nonno ha sempre detto che quel giorno, a Berlino, è come se Gagarin trentotto anni prima fosse precipitato insieme al suo Vostok, prendendo fuoco a contatto con l’atmosfera e finendo la sua corsa schiantandosi nel freddo suolo inospitale della Siberia, spazzando via tutte le speranze a 700 km/h.
Se vi sembra facile realizzare di essere stati, di fronte alla Storia e per tutta la vita, dalla parte sbagliata, se vi sembra facile dover-cambiare-di-colpo-idea, dopo aver passato l’esistenza ad inseguire una meta che si rivela vana, allora non potrete capire questa storia.
Come se un prete, dopo una vita di castità, si ritrovasse a scoprire in punto di morte che Dio non esiste e che tutto è stato inutile. Quando si era presentata l’occasione con quella compagna di banco alle medie porca e tettona che insisteva per farli un pompino, avrebbe fatto meglio ad assecondare le sue voglie, invece di rifiutare con finto sdegno in nome di quelle menzogne, chiamate peccato, che gli avevano inculcato nella parrocchia mentre lo stavano preparando ad una vita di rinunce.
Così il Socialismo per mio nonno e per quelli come lui era stato una sorta di religione: avrebbe prima o poi portato al riscatto e alla dignità, che come un velo si sarebbero posati su tutta l’umanità e sui suoi amati nipotini in primis. Dopo aver perso la sua partita con la Storia, avrebbe però lasciato schiere di “adepti” soli a combattere una battaglia persa in partenza con il cosmo.

A pensarci bene, da allora tutto sembra essere rimasto immobile. Non sembrano essere passati così tanti anni da quando quella storia è finita con mio nonno che passava le sue ultime giornate a lottare contro il suo male incurabile -ma se Gagarin era riuscito a sopravvivere orbitando intorno alla terra, viaggiando a 27.000 km/h, “posso farcela anche io”-, ad osservare con disprezzo una politica che da quando è caduto quel Muro non ha più saputo reinventarsi, a fare il tifo per quei nuovi e inediti coraggiosi eroi delle traversate, non più celesti ma acquatiche, travestiti da migranti che bussavano alle nostre porte mentre nessuno era pronto e disposto a rispondergli.

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