Avereventanni

Fate finta che io sia un tristone tardo adolescente. In fondo si parla della celebrazione di un ventennale. Fante finta perché in realtà di anni ne ho trenta e la tristezza me la sono lasciata alle spalle da un bel pezzo; tutto il resto potete lasciarlo tranquillamente al suo posto.

Loro ne fanno venti. Io, da quando ho cominciato ‘sta storia in loro compagnia nel giorno che rimasi ammaliato dal video di Alive, ne compio diciassette. Allora possiamo dire che sono quasi maggiorenne e certe cose ora posso scriverle. Ecco, mi sembra ormai chiaro che finiranno per essere la mia relazione più duratura di sempre. Scusa tesoro, ma non potremo mai raggiungerli. Per farlo si sarebbe dovuta verificare una congiunzione astrale potentissima, tale che ci saremmo dovuti conoscere nel millenovecentonovantatre, a trecentottantasette km di distanza, io non avrei dovuto avere tutti quei brufoli sul viso, la pelle così grassa e non avrei dovuto dedicare tutto il mio tempo libero a suonare il basso e a giocare a basket e a calcio, il che avrebbe consentito che tu mi degnassi almeno di uno sguardo.

Insomma, com’è come non è, sono passati venti (diciassette) anni e sarà pure un caso per voi, ma loro sono stati sempre presenti nei momenti cruciali della mia crescita. Qualche segreto e potente motivo deve pur esserci se molti episodi sono in grado oggi di collocarli nel tempo in relazione a un disco o a una canzone che ascoltavo, oppure se Eddie aveva i capelli lunghi o corti, se Mike era grasso o magro e di che colore aveva i capelli: una specie di pietra d’angolo, un prima e dopo. All’inizio avevo anche l’assurda pretesa che potessero mettere un po’ di ordine nella mia vita, che potessero farmi superare senza dolore i momenti difficili. Poi quando capisci che dipende solo da te stesso, che loro non si curano di te -come potrebbero farlo, se neanche ti conoscono?-, ormai sei fregato e ci rimani legato per il resto dell’esistenza. Dovrai muoverti con le tue gambe, ma loro, come dire, aiutano. In fondo ero solo un ragazzino che elemosinava pillole di saggezza e certe cose non cambiano con il tempo: volevo solo la mia dose di felicità e la felicità è meglio prenderla quando ti capita. Forse è proprio questo che è difficile da spiegare e far capire. Il legame imprescindibile, un mix micidiale di emozioni, speranze, grinta, rabbia, disperazione, amore, tristezza, malinconia, lotta, sensibilità, felicità, gioia, illusione, disillusione, insomma di tutti i sentimenti che siamo capaci di provare. Far parte di questo vortice e sentire che non sarebbe possibile altrimenti. Poi passano gli anni e le cose cambiano, si stravolgono e ti travolgono. Ma loro c’erano e ci sono ancora oggi che sei cresciuto, almeno sulla carta d’identità; ma forse nella fase del passaggio all’età adulta con loro non sono mai pienamente arrivato. L’adolescente inquieto come deve essere, con il suo più o meno costante senso di disagio (niente di trascendentale, eh, nulla a che vedere con i ragazzi problematici da film) si è rotto da tempo il cazzo, ha cambiato prospettiva e ha deciso di non incasinarsi più da solo la vita. Se mi guardo indietro e non ho voglia di sbattere la porta in faccia al passato, a quel passato ormai remoto, è anche grazie a loro: ci sono anche quei cinque ragazzi nel mucchio che ha riempito la mia mano -non molto di più-, se prendo tutto quello di buono che c’è stato.

Quando li ho conosciuti, una cosa più di tutte era evidente: per la prima volta non erano un gruppo sempre clone di se stesso, non erano i criceti dentro una ruota, la stessa solfa che si ripete ogni giorno. Erano il calore in mezzo al petto, come quello del sesso in mezzo alle gambe. Il senso di vertigine, un po’ epico. La nausea. Il bruciore allo stomaco. Le farfalle nella pancia, che mai ho sbagliato a scambiarlo per amore, perché era amore. Erano la classica e stereotipata rabbia adolescenziale che si trasforma in qualcos’altro, in qualcosa di migliore. C’era e c’è ancora la celebrazione della vita, con tutte le sue noie e contraddizioni. Chi li ha visti almeno una volta dal vivo sa di cosa parlo.

Mi piace pensare che senza di loro le cose sarebbero andate diversamente, anche se ovviamente e razionalmente non è così. Come se senza la loro musica mi sarei trasformato in un cafone ignorante, stupratore, violento da stadio, figlio di puttana, spietato ultracapitalista inquinatore, nazi-punk, cinico senza scampo indifferente a tutto. Come la prima volta che sono andato a fare la spesa con la busta di tela riciclabile, che mi ha fatto sentire molto sì, cioè, alloraaa, il mio più grande cioè desiderio? sì, cioè la pace nel mondo, cioè ho pensato fosse stato un po’ merito anche loro. Perché così come non cominciamo mai da soli una storia, così quando prendiamo una decisione ci portiamo sempre dentro le parole dei nostri genitori, anche e soprattutto quello che non ci hanno saputo dire, le esperienze, i consigli degli amici, i racconti tremolanti dei nostri nonni, i libri che abbiamo letto, gli insegnamenti che qualcuno ci ha regalato e, at last but not least, la musica che abbiamo ascoltato. Ecco perché stanno nella mia personale libreria proprio lì, in mezzo ai romanzi di formazione.

Ma non ho mai pensato che Eddie fosse stato il primo uomo a mettere piede sulla Luna, né tanto meno che fosse stato lui ad appenderla lì in mezzo al cielo per permetterci di contemplarla e farci sognare. Forse è stata proprio la sua attitudine all’umiltà e la sua riluttanza verso la celebrità a renderlo un tipo di eroe diverso ai miei occhi e non un patetico messia del cazzo. Anche sua era la lingua della mia giovinezza, ma era molto più umano e reale: I shit and I stink, I’m real , join the club.

Anche se il tutto era condito da una buona dose di ingenuità, c’è in fondo qualcosa di più puro di quando, solo nella mia cameretta, ero intento ad imitare i miei eroi? Penso di essermi slogato sette volte le caviglie per suonare il basso à la Jeff, con tutto il corpo proteso all’indietro, ed ho visto una volta mia madre quasi piangere al pensiero che mi fosse venuto un attacco epilettico, ma vaglielo poi a spegnere che ERO Eddie mentre intona l’uh-uh-uh-uh-uh sul finale di Jeremy. Provavo il mio personale stage-diving usando una sedia come palco e il materasso grande dei miei genitori come fosse folla impazzita, bramante ed urlante, ma una delle prime volte, quando non avevo ancora del tutto affinato la tecnica, mi sfracellai per terra. Data la mia evidente ossessione che si manifestava anche fisicamente, sembra quasi assurdo che dopo tutti questi anni mia madre ancora li chiami, seriamente, “i Peggèm” ed io ancora cerchi ogni volta di correggerla, insegnandole la corretta pronuncia. So che non lo imparerà mai, ma vivo sperando.

Certe cose non si decidono. Ci prendono alle spalle, ed è come se conoscessero profondamente la nostra anima. Tutto sembra naturale ed è come se ti fosse stato cucito addosso, anche se potrebbe adattarsi molto bene anche ai profili di molti altri. Lo senti come tuo, più di quanto lo possano avere mai gli altri. I testi e la musica sapevano, e lo fanno ancora, leggermi dentro come fossi un libro aperto. Ora tutto questo è come un pezzo dell’adolescenza (l’età dalla quale viene tutto ciò che è sacro, come direbbe EV) che ci portiamo sempre appresso. Perché lasciarlo andare via? Perché crescere del tutto, come se nulla fosse mai successo, e far finta che quel terremoto emotivo che ci ha scossi non si fosse mai sprigionato? Ora che abbiamo più o meno vent’anni, anche se tutta ‘sta passione che provo a volte sembra viaggiare a corrente alternata (ogni tanto sento di averli relegati lì, in un posto sicuro del cuore, ma non proprio a portata di mano), ogni volta che ascolto una nuova o veccchia canzone, ogni volta che vado ad un loro concerto e mi fanno sentire sospeso a qualche metro da terra manco fossi il protagonista di uno scadente romanzo per mocciosi innamorati, mi sento felice come un bambino sulla giostra che fa ciao ciao con la manina e che non ha nessuna intenzione di scendere.


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