Hey man, now you’re really living

Quando entrai per la prima volta in quest’ufficio, ormai più di un lustro fa, stavo vivendo il periodo più merdoso della mia vita.
Ricordo che mi accolsero con una battuta, che mi fece sorridere e pensare per un attimo che le cose potessero cambiare. Fu divertente per circa quindici secondi. Poi l’aria triste e pesa di quelle stanze mi fece ancora di più sprofondare in me stesso. Non è che mi dispiacesse poi tanto. Mi ero chiuso nel mio dolore e avevo intenzione di vivere all’esterno lo stretto necessario, convinto che qualsiasi cosa mi potesse fare male, e che, se pure fossero state piccole disavventure, con il mio stato d’animo e la mia ipersensibilità le avrei moltiplicate per mille.
Non è che fu una decisione saggia, me ne rendo conto: lasciare alla socialità spiragli minimi che si limitavano al “ciao” e “a domani” non mi poteva di certo aiutare a superare il mio moneto. Ne ero cosciente, eppure mi sembrava allora la decisione più saggia che potessi prendere. In attesa di non sapevo bene cosa, né tantomeno quando.

Arrivi ad una certa età, corrispondente più o meno ai primi anni delle scuole superiori, in cui fanno passare l’dea che la vera letteratura sia quella stesa su molte pagine e, possibilmente, scritta in un altro secolo. Che le autobiografie o i racconti brevi siano una perdita di tempo, da lasciare a chi ha la capacità di concentrazione di un adolescente inebetito da tv e videogiochi e a chi da un libro non vuole poi ricavare molto di più di un passatempo. Col cazzo.
Che è un po’ la stessa logica che porta gli intellettualoidi snob all’idiosincrasia per il calcio e a giudicarne i suoi amanti, ed il rito domenicale che ne scaturisce, come stupidi uomini medi soggiogati ad uno strumento di distrazione di massa dai problemi.
Ci metti un po’ a smarcarti da quest’idea, a liberarti da questa visione elitaria della letteratura, ma quando ci riesci è un vero spasso. Poi almeno puoi liberarti dagli schemi e dalle prigioni che ti sei costruito: tiri il fiato, petto in fuori, sguardo fiero, affermando con scontrosa pomposità “leggere il Gattopardo mi ha veramente rotto i coglioni”. Ah, che liberazione.
Riesco a sorbirmi indistintamente e senza problemi le analisi micidiali di Gore Vidal, i saggi incendiari di Bakunin, a godere delle magie di Borges, delle follie di Nietzsche o delle analisi strampalate di altri libri propinate da un Nick Hornby in veste di recensore, dei viaggi in solitaria di Erri De Luca, del nichilismo pieno di vita di Irvine Welsh, del politicamente scorretto di Mordecai Richler, del minimalismo di Carver, dei mondi fantastici di García Márquez, degli amari romanzi del mio eroe letterario Jonathan Coe.
Ho accennato prima alle autobiografie. Ultimamente ne ho lette due che mi hanno appassionato più di molta narrativa osannata e ostentata: quella di un precario americano, delle sue immense fatiche, privazioni ed avventure, e quella di un cantante rock, che a metà degli anni novanta andava molto in voga tra i ggiovani finto-alternativi-veri-figli-di-papà, ora un po’ meno ed è meglio così. Quelli più smaliziati di voi avranno già capito, dal titolo, dove mi sto dirigendo.
Mark (sì, ormai lo considero quasi un amico, gli do del tu) è uno che dalla vita ha ricevuto molte spiacevoli sorprese e che dalla vita ha saputo anche prendere tanto. La sofferenza l’ha trasformata in creatività ed ispirazione. Così come la felicità. Subisce dei tremendi lutti e lui che fa? Si dispera? Certamente. Ma riversa anche tutto il peso che sente dentro, nelle note e nei versi di una canzone. Nel 2009 è uscito un suo disco, ma finisce anche un’importante storia d’amore. E lui che fa? Soffre come un cane? Ovvio. Ma decide che i tempi dell’industria musicale dovrebbero adattarsi a quanto ha da dire, così si chiude in casa e, pochi mesi dopo, fa uscire l’ennesimo disco. La summa, il simbolo, di quello che dovrebbe essere un disco. La creatività che nasce dalla sofferenza e l’insostenibile desiderio ed urgenza di esprimerla facendo musica. Tutto quello che dovrebbe essere il rock, il folk, il pop, la musica (e non solo). Vero ed intenso come un pugno nello stomaco. Mark 10, vita 0. Vince sempre lui.
Come può non essere uno così un esempio? Cavarne qualcosa di buono da ogni istante, bello o brutto che sia, ti fa pensare alla giusta prospettiva da avere.

Solo che qualche anno fa questo libro non era ancora uscito, né tantomeno mi sarebbe servito. Anche Mark, quando si siede a scrivere le sue canzoni mica lo fa perché legge la storia di qualcuno che non se ne sta a piangersi addosso a non fare nulla, invece di reagire, qualsiasi cosa questo voglia dire. Così forse le energie puoi trovarle solamente dentro te stesso. Darti degli obiettivi e lottare per averli e contemporaneamente guardare indietro e sbattere la porta. Così un bel giorno decisi di uscire dal guscio e provare a fare qualcosa di buono. Che provare è diverso dal riuscire l’ho capito solo più tardi, ma qualche conquista l’ho ottenuta davvero. A cominciare dalla persona che vorrei mi stesse acanto fino a quando non avrò più i denti, sarò rincoglionito più di adesso e avrò bisogno di qualcuno che mi pulisca il culo. Vorrei tanto fossi tu a farlo, ma, hey, se insieme riusciremo a metter da parte un po’ di soldi, va bene anche qualche badante ventenne dell’est dalle tette grandi e che si sente molto sola.

Un tempo pensavo che se ogni anno ci auguriamo che sia migliore sotto ogni aspetto, o siamo incontentabili, oppure in fondo ‘sta vita è proprio una merda. Preferivo i buoni propositi per il giorno dopo, piuttosto che quelli per l’anno nuovo, ché mi conosco abbastanza bene e, con tutto quel tempo a disposizione, li avrei rimandati all’ultimo giorno, quando ormai era tutto inutile. Ma, ora che vivo per obiettivi, riesco a trovare anche l’entusiasmo, così raccolgo le forze e mi tuffo in una nuova avventura. Luglio non è poi così lontano e ho tante cose da fare in vista della mia prossima battaglia. Una di quelle che, se la vinci, ti cambia la vita.
Ora che sto realmente vivendo.


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