School of rock

Durante queste ultime settimane ho scritto poco, perché, in questo periodo, la mia capacità di concentrazione è simile a quella di un adolescente in trip da videogiochi. E la mia voglia di comunicare rasenta l'autismo. In compenso, e forse proprio per questo, gli ultimi mesi sono stati tutti un concorsi, colloqui, domande e curriculum. L'imperativo era cambiare subito lavoro; per ora invece è tutto un ma e un mah.

Ogni mamma che si rispetti ha da sempre esortato, almeno una volta nella vita, i propri figli con uno stai lontano dalle droghe. Tranne la mia. Era chiaro, fin da piccolo, che la mia unica dipendenza oltre i libri, per la quale avrei speso tutti i miei averi, sarebbe stata la musica. La sua singolare alternativa è invece sempre stata quella di mettermi in guardia dallo stare lontano dalla scuola. Lavorativamente parlando, eh. Lei, maestra d'asilo, mi ha sempre illuminato sulle assurdità del sistema scolastico italiano. Un mondo vivo, pulsante, ma la maggior parte delle volte solo di incomprensibili schemi. Ma, visto che sono un giovane ribelle e (ex) capellone, la mia ultima trovata, in ordine di tempo, è stata presentare la domanda per entrare in graduatoria per le supplenze. E dove portarla, da bravo nostagico, se non al liceo nel quale mi sono diplomato? Giusto per spiare la nuova atmosfera, respirarne la vecchia aria e, naturalmente, farmi agitare il cuore nel petto, per sentirlo poi incastrarsi da qualche parte tra il collo e le spalle e poi, per qualche ora, non volerne sapere di tornare al proprio legittimo posto.

Tutto molto bello e romantico, solo che il mio tuffo improvviso e realmente mai preventivato nel passato mi ha fatto constatare che, ahimè, la genitrice non ha mai sbagliato.
Dopo la mia trionfale entrata nell'edificio, occhi lucidi e petto gonfio e tronfio -hey, questa è la mia scuola!-, mi sono scontrato con la realtà che presupponeva evidentemente, non come l'immagine ingenua che nell'attesa avevo costruito nella mia mente, la possibilità che nulla si fosse congelato al momento esatto del verdetto della mia maturità. Nella mia scuola non riconosco e non mi riconosce più nessuno. Ero pronto a qualcuno che mi sarebbe venuto incontro con fare festoso, abbracci, sorrisoni ammiccanti e battute grevi con i bidelli (pardòn, gli operatori culturali). Tutti i rapporti umani costruiti in cinque anni sgretolati per me in un soffio. Ed io, di conseguenza, lì, ora, in questo preciso momento, non sono più nessuno. Nemmeno uno che mi caga oltre i semplici convenevoli di presentazione. La delusione è talmente tanta che perdo subito la voglia e la curiosità di rituffarmi tra quei corridoi. Allora decido di controllare, con finta distrazione, l'elenco dei docenti che non fa altro che confermarmi la triste realtà: tra loro sono rimasti solo gli inutili professori di educazione fisica.

Ma è l'epilogo di questa storia a confermarmi, cacciando via il dubbio che si era insinuato in me, di non aver sbagliato posto. In tutta la segreteria ci sono ancora due pc -quei due pc- che risalgono probabilmente alla prima rivoluzione informatica, Bill G*tes non era ancora nato e gli egiziani stavno ancora ultimando la costruzione della piramide di Chefren. Tutto, compresa la mia targica domanda, è scritto ancora rigorosamente ed unicamente da abili amanuensi su epici registri, pratici come un borsone senza manici, immensi più di un tomo della Storia della Filosofia di Abbagnano. Stona un po' la mia autocertificazione lì in mezzo a cotanta storia della burocrazia pre-caduta del muro di Berlino.

Paradossalmente è proprio questo a farmi uscire contento da quel luogo e da quei ricordi.

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